Thailandia fai da te – Parte 3: da Marina Bay alla Little India, a piedi nel sogno
Thailandia fai da te: non è andata come previsto. È andata meglio.
Qui ti racconto com’è andata, puntata dopo puntata, e ti faccio scoprire il mio itinerario per un viaggio indimenticabile.

La mattina dopo il nostro arrivo, la città fuori era già sveglia da un pezzo.
Il cielo era chiaro, le strade ancora mezze vuote, e io — come spesso faccio quando siamo in viaggio — mi sono alzato prima, ho lasciato mia moglie prepararsi con calma, e sono uscito per un piccolo giro esplorativo nei dintorni.
Non mi piace restare in stanza ad aspettare. Quando sono in un posto nuovo, ogni minuto conta. Camminare da solo all’alba in una città straniera mi rilassa. Mi fa sentire vivo.
Vicino all’hotel c’è Hong Lim Park, un fazzoletto verde incastonato tra grattacieli e viuzze strette. Poi mi sono lasciato guidare dai passi, fino a Upper Cross Street.
Non so spiegarti il perché, ma quella zona mi ha dato la sensazione di essere in un western orientale. Le case basse, i colori sbiaditi, le insegne… sembrava tutto uscito da una pellicola che mischia mondi diversi.
Ero a Singapore, ma sentivo il gusto dell’inaspettato.

Torno in hotel, mia moglie è pronta. Si parte.
Il programma del giorno era ambizioso ma bellissimo: scoprire le anime diverse di Singapore, una accanto all’altra. Iniziamo con il quartiere arabo, Kampong Glam.
A piedi, sotto un sole già deciso. Le strade sono pulite, ordinate, ma mai fredde. La gente passa, saluta, osserva senza invadere.
Lungo il percorso ci fermiamo davanti a un edificio che mi aveva incuriosito già da casa: il Parkview Square, che qui chiamano The Gotham Building.
Sembra davvero uscito da un film di Batman.
Un palazzo alto, scuro, con dettagli dorati e un’atmosfera vintage da fine anni ‘30. Dentro ospita l’Atlas Bar, uno dei locali più spettacolari del mondo, con una parete altissima colma di bottiglie di gin, luci basse e profumo di lussuosa tranquillità.
Ci limitiamo a guardare, ma sarebbe bastato restar lì un’ora in silenzio.

Poi riprendiamo il cammino.
E dopo qualche isolato, appare lei: la Sultan Mosque, col suo immenso tetto dorato e la sua simmetria perfetta. Mi fermo. Scatto. Poi rifaccio la foto. Poi ci giro intorno. Ogni angolazione la fa sembrare più bella. È un edificio che non ti chiede attenzione: se la prende.

Subito dopo entriamo a Haji Lane, una delle vie più particolari che abbia mai visto.
Murales ovunque, negozietti alternativi, gallerie d’arte, localini pieni di studenti e artisti.
Ci perdiamo tra le vetrine colorate, le scritte sui muri, la musica che esce da una finestra al primo piano. C’è un’energia rilassata ma creativa, viva ma mai caotica.
Sembra una piccola isola nella città. E ce la godiamo tutta.
Dopo Kampong Glam, cambiamo atmosfera: si va a Little India.
E qui cambia tutto. I colori diventano più accesi, gli odori più intensi, la musica più presente.
Ogni metro ha un suono, una spezia, un volto curioso.
È come se Singapore avesse mille voci, e in questa zona parlasse con quella più speziata e chiassosa. Volevamo entrare nel tempio Sri Veeramakaliamman, ma purtroppo era chiuso.
Siamo passati comunque davanti, l’abbiamo guardato in silenzio. Imponente, decorato, quasi ipnotico. Avrei voluto vederlo dentro, ma ci siamo promessi di tornarci.

Poi — inevitabilmente — ci è venuta fame. E con tutto quel profumo nell’aria, come darti torto. Ci fermiamo a mangiare in uno di quei posticini che non hanno insegne brillanti, ma solo piatti buoni e porzioni abbondanti. Mangiamo seduti sotto un piccolo porticato, guardando la gente passare. Ogni viso sembra portare una storia. Ogni angolo un contrasto. Dopo pranzo, si torna verso Marina Bay. L’obiettivo? I Gardens by the Bay, ovviamente.
Quei famosi “alberi giganti” che avevo visto mille volte nei video… ma che dal vivo sono un’altra cosa.

Scarico un’app, compriamo i biglietti, e saliamo sulla passerella sospesa che li collega. Camminare lassù è qualcosa che ti resta dentro.
Vedi la città dall’alto, ma anche questi colossi metallici che sembrano respirare.
Facciamo foto, ci guardiamo, ci sediamo un attimo.
Il sole comincia a calare.

Poi, all’improvviso, le luci si accendono.
Parte una musica orchestrale che si alza dolcemente, e gli alberi iniziano a cambiare colore al ritmo delle note. Blu, viola, oro, verde. Il cielo scuro sopra, il profumo dell’erba sotto, la gente che resta a bocca aperta. Io lascio il telefono in tasca e mi godo tutto.
Un piccolo video l’ho fatto — certo — ma certe cose vanno vissute più che archiviate.
Usciti dai Gardens, facciamo un giro nel centro commerciale del Marina Bay Sands Theatre, poi una sosta alla Singapore Flyer, la ruota panoramica che domina la baia.
Non saliamo, ma ci fermiamo lì intorno a guardare l’acqua, le luci, il riflesso del cielo.
E poi, proprio mentre stavamo scattando le ultime foto al Merlion, le nuvole ci hanno sorpresi.
Una di quelle piogge improvvise, tropicali, che non ti danno neanche il tempo di dire “corri”. In un attimo siamo passati dallo zoom alla fuga. Senza pensarci troppo, ci siamo rifugiati sotto il cavalcavia poco distante dal Merlion.
Io — ovviamente — avevo lasciato il k-way in stanza, a “riposare” sul letto come se non servisse a nulla. E invece… Restiamo lì per un po’, mentre l’acqua scende e la città rallenta.
Intorno a noi silenzio, sotto di noi pozzanghere che riflettono le luci della baia.
Il Marina Bay Sands resta lì, maestoso, quasi a guardarci.
Il k-way in hotel, la valigia persa chissà dove. Noi sotto un ponte a Singapore. Eppure… ci sentivamo bene.
È diventato uno dei ricordi più belli del viaggio.

La mattina dopo, sveglia presto e nuova direzione: Chinatown.
Attraversiamo strade strette, bancarelle piene di oggetti strani, gente che beve tè seduta all’aperto. Facciamo una sosta veloce al Sri Mariamman Temple, poi andiamo verso il cuore della zona: il Buddha Tooth Relic Temple. Uno dei luoghi più intensi visti fino a quel momento.
Dentro c’è una pace profonda, quasi tangibile. Al secondo piano una gigantesca ruota della preghiera, e ovunque statuette di Buddha. Un silenzio che abbraccia. Un ordine che calma.

Dopo il tempio, a pochi passi c’è il Maxwell Food Centre: un mercato coperto, caotico ma meraviglioso, pieno di profumi e piatti locali.
Ci prendiamo qualcosa da mangiare, seduti a un tavolo lungo. È tutto buono, ma anche tutto vero.

Nel pomeriggio prendiamo un autobus fino a Mount Faber, e da lì una funivia panoramica ci porta fino a Siloso Point. Vista incredibile, un’altra faccia di Singapore.
Avrei voluto visitare anche gli Universal Studios, ma il tempo era tiranno.
E va bene così.

Al tramonto torniamo a Little India. Il tempio Sri Veeramakaliamman è finalmente aperto. All’ingresso prestano un abito tradizionale a mia moglie (che altrimenti non poteva entrare), che lo indossa con un sorriso mezzo imbarazzato. Entriamo durante una cerimonia: musica, canti, incenso, gente ovunque, una scena vivissima, quasi teatrale. Ci offrono delle bacche — non ho mai capito cosa fossero, ma erano buone — e per qualche minuto ci lasciamo trasportare.
Non era permesso fare foto all’interno, e inizialmente mi è dispiaciuto, perché quel posto era davvero unico. Ma alla fine è stato meglio così: ci siamo goduti ogni istante, senza distrazioni, completamente immersi.
Rientriamo in hotel. E accanto alla reception, a terra, la sorpresa che non ti aspetti: la valigia. Quella smarrita. È tornata. Quando ormai non ci speravamo più.
Mia moglie è felicissima. Io un po’ meno, perché ormai ne avevamo già comprata un’altra. (E sapevo che toccava a me scorrazzarla in giro per la Thailandia)
Ma va bene. Ora abbiamo anche lei. E tutto è al suo posto.
L’ultima mattina a Singapore ci svegliamo con quella malinconia che solo i viaggi sanno dare. Il volo per Bangkok è nel pomeriggio, ma abbiamo ancora qualche ora. Non voglio lasciarla così, senza un ultimo sguardo. Marina Bay mi ha stregato e voglio rivederla alla luce del giorno, con calma.
Torniamo al Merlion Park, facciamo le ultime foto, ma soprattutto ci sediamo un po’ lì, senza fretta. A guardare l’acqua, i grattacieli, la gente. A respirare tutto.
È il mio modo per imprimere tutto nella memoria, prima di voltare pagina e cominciare la prossima.

Poi torniamo in hotel, recuperiamo i bagagli e ci dirigiamo verso l’aeroporto. E se l’arrivo a Singapore ci aveva già stupiti, lo Changi Airport è la conferma definitiva. Una cascata gigante al centro, alberi veri, luci soffuse, un cinema, aree relax, negozi ovunque. Sembra un parco divertimenti più che un aeroporto.
È uno di quei posti dove, sinceramente, ti viene quasi voglia di perdere l’aereo, solo per restare un po’ di più.

Poi il nostro gate ci chiama.
Salutiamo Singapore.
Non abbiamo visto tutto.
Ma forse è proprio questo il bello:
sapere di volerci tornare.
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